Non esiste un brand senza valori. I prodotti vengono ben identificati da un marchio se questo è capace di raccontare una storia che comunichi i suoi valori fondanti ai suoi consumatori.
Fino a qualche anno fa il brand comunicava a senso unico, il consumatore era il bersaglio passivo del suo messaggio ed esercitava la sua capacità di giudizio solo nella scelta di acquistare o meno il prodotto. Il web ha cambiato tutto. Oggi anche il consumatore racconta la sua storia sul brand, condividendo la sua esperienza del prodotto con altri consumatori all’interno di communities, forum, blog e social network. Oggi il consumatore contribuisce attivamente a creare il sistema valoriale del brand, e quindi la sua reputazione, ma non sempre i valori percepiti coincidono con quelli promossi dall’azienda.
Il racconto di esperienze negative, se reiterato e condiviso, può addirittura sovvertire i valori che il brand ha sempre “predicato”.
Bisogna partire dal presupposto che il consumatore si fida di più di un altro consumatore che dell’azienda e quindi i consumatori si influenzano a vicenda. Questo meccanismo è tanto più potente quanto le conversazioni on line sull’azienda avvengono all’interno di comunità virtuali che hanno motivazioni aggreganti molto forti (pensiamo ad esempio ai forum dedicati alle mamme o alle communities dei tifosi) e quanto più l’autore del discorso è riconosciuto come influente, ovvero con una competenza elevata e con molto seguito in un determinato settore. Questi contenuti sono premiati non solo da chi li legge, ma in primis dai motori di ricerca che li ripropongono come prime fonti di informazione a chi ricerca informazioni on line su quel dato brand o prodotto. Ecco perchè l’impatto della reputazione on line è così alto: l’esperienza di altri consumatori è spesso il primo contenuto che ci troviamo davanti quando digitiamo su Google il nome di un brand. Se queste storie sono negative, l’effetto può essere devastante.
Nel concetto di reputazione è insito quello di rischio. Esistono diversi fattori, endogeni ed esogeni, che possono mettere a rischio la reputazione dell’azienda: problemi con la qualità dei prodotti/servizi, questioni etiche, scandali manageriali, dipendenti ed ex dipendenti.
L’impatto non è solo sul brand, ma anche su chi lo rappresenta: l’executive reputation, la reputazione dei leader dell’azienda, è un fattore cruciale quanto quella di prodotti e servizi. Il meccanismo di identificazione e sovrapposizione tra azienda e leader è sempre più forte, per cui l’executive reputation è un fattore da monitorare con attenzione, perché ricade sull’immagine stessa dell’azienda.
Per ogni tipologia di crisi l’azienda deve essere pronta ad attuare un piano di gestione e intervento, perché sul web l’effetto è quello di una immediata espansione a macchia d’olio, molto difficile da gestire se non si è adeguatamente preparati.
Ma quanto può durare esattamente una crisi sul web? Il concetto di durata di un fenomeno sul web è molto particolare, non segue le stesse regole, ad esempio, della carta stampata. Grazie al meccanismo dell’indicizzazione dei contenuti sui motori di ricerca, un evento può restare attuale anche per anni, perché compare tra i primi risultati associati all’azienda sul motore di ricerca.
Allo stesso modo può accadere che una crisi esploda molto più tardi rispetto a quando l’evento critico è avvenuto. Pensiamo ad esempio a rapporti tesi tra azienda e i dipendenti. E’ capitato che dopo molto tempo dalla conclusione del rapporto di lavoro, l’ex dipendente pubblichi on line la sua esperienza negativa, scoraggiando i potenziali candidati, o arrivando a far esplodere un caso se si tratta di esperienze particolarmente negative. Sono bombe inesplose che possono far male dopo molto tempo.
Per parafrasare un noto slogan, potremmo dire che sul web una crisi è per sempre.
Per capire meglio il concetto di durata di una crisi on line, consideriamo due casi paradigmatici dell’ultimo anno: Barilla e Moncler.
Quando nel settembre 2013 Guido Barilla dichiarò a “La Zanzara” che non avrebbe mai girato uno spot che avesse come soggetto una famiglia gay, il web esplose in una ferocissima polemica.
Nelle prime 24 ore su Twitter arrivarono più di 46.000 tweet, molti dei quali invitavano a boicottare i prodotti Barilla. Dopo dieci giorni i tweet erano scesi a 262, fino a spegnersi un mese dopo: il 27 ottobre si registravano solo 17 tweet sul caso. Recentemente la vicenda si è in parte riaccesa dopo la svolta “pro-gay” del brand certificata dal massimo punteggio ottenuto nel Corporate Equality Index elaborato dalla Human Right Campaign, associazione americana per i diritti degli omosessuali che ogni anno stila una classifica delle compagnie gay friendly, che ha valutato molto positivamente le iniziative del brand rispetto ai diritti degli omosessuali in azienda. La notizia è stata commentata in 500 tweet, ma il dato significativo è che il 76% di questi è negativo, proprio in ragione alla posizione dell’anno precedente, rispetto alla quale molti hanno ritenuto la successiva svolta poco credibile.
All’inizio di Novembre 2014 il servizio di Report “Siamo tutti oche” ha scatenato sul brand Moncler nelle prime 24 ore quasi 12.000 tweet, che il giorno successivo sono diventati 6mila fino ad arrivare una settimana dopo a calare del 96%, e la media si è mantenuta costante per tutto il mese di novembre. Dopo cinque mesi, a Marzo, arriva la notizia che Moncler nel 2014 ha addirittura raddoppiato i suoi utili rispetto all’anno precedente. In diversi articoli che commentano l’ottimo risultato, è quasi inevitabile però il riferimento alla crisi etica che aveva investito il brand qualche mese prima, e naturalmente gli utenti, stimolati a ripensare all’accaduto, reagiscono con commenti di questo tipo:
“non è un trionfo per la Moncler……solo un massacro per quelle povere creature..e una sconfitta per la civiltà e il rispetto degli animali e di chi li difende..”
Entrambe le vicende quindi dopo l’esplosione iniziale si sono sopite, ma non si sono spente del tutto. I casi di Moncler e Barilla ci rivelano un concetto fondamentale del web che è quello della coda lunga. E’ naturale che su un canale istantaneo come Twitter la crisi sia “cotta e mangiata”, ovvero si assista ad una immediata esplosione e poi ad un affievolirsi progressivo dell’interazione. L’aspetto fondamentale che però i brand devono considerare è proprio la coda lunga, ovvero il fatto che rimangono sempre attivi dei focolai, che possono riaccendersi in qualsiasi momento. Inoltre tutto ciò che è successo, anche un anno prima, diventa immediatamente attuale se consultiamo un motore di ricerca.
Se è vero come diceva il direttore Montanelli che “un giornale, il giorno dopo, è buono solo per incartare il pesce”, questo non vale in rete dove ogni giorno successivo all’esplosione di un caso è possibile recuperarlo e renderlo nuovamente attuale, grazie alla memoria permanente e sempre disponibile della rete. Bisogna in particolare fare attenzione all’azione dei cosiddetti influencer, ovvero quei soggetti molto attivi e influenti su un argomento che hanno il potere di raggiungere con la loro comunicazione molte persone e di influenzare la loro opinione. Anche se non è esplosiva, l’azione degli influencer può essere ugualmente lesiva per il brand, proprio perché lavora sulla coda lunga.
Alla luce di tutto questo l’unico sistema per essere sempre pronti e quantificare i danni è monitorare costantemente la reputazione on line.