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Reputazione on line: impariamo a costruirla

“La domanda di fondo è: vuoi subire o costruire la tua identità digitale?”. Per aiutare brand e aziende a rispondere a questa domanda, Andrea Barchiesi ha scritto un libro e noi lo abbiamo intervistato.

Andrea Barchiesi, CEO e Founder della società di consulenza Reputation Manager (www.reputazioneonline.it), è uno dei massimi esperti in Italia di web intelligence applicata al marketing e alla comunicazione. Barchiesi ha definito il concetto di “ingegneria reputazionale” e, applicando metodologie interdisciplinari, sta trasformando il campo delle interazioni online in una scienza misurabile e capace di previsione. Da oltre dieci anni si occupa di analisi e gestione della reputazione online e di tutela e costruzione dell’identità digitale per aziende, istituzioni e personaggi pubblici.

Andrea Barchiesi è inoltre autore di due pubblicazioni:

La tentazione dell’oblio – Franco Angeli

Web intelligence e psicolinguistica – Franco Angeli

Quello della reputazione/identità digitale è un tema quanto mai attuale e sensibile. Tutti i noi, volenti o nolenti, abbiamo un io digitale, una rappresentazione in rete, frutto di azioni e informazioni inserite da noi o da altri, che restituiscono un ritratto più o meno fedele, più o meno completo del nostro profilo personale e professionale. La domanda, dunque, è: vogliamo subire o costruire la nostra identità digitale?

Questo vale per le persone e vale, naturalmente, per un’azienda, un’istituzione o un personaggio pubblico. Per questi soggetti è sempre più importante assicurarsi gli strumenti per costruire la propria identità online in modo coerente con la propria storia e i propri valori, analizzare la propria reputazione e imparare a gestire le eventuali crisi. “La tentazione dell’oblio”, di nascondere o semplicemente eliminare informazioni o commenti ‘scomodi’ è sempre forte, ma non c’è niente di più sbagliato e, soprattutto, pericoloso.

 

Intanto abbiamo chiesto ad Andrea Barchiesi di aiutarci a definire la “Digital Reputation”.

A.B. Possiamo definire la reputazione online come la previsione dell’esito di una relazione. Immaginiamo ad esempio di leggere online che un promotore finanziario è stato accusato di truffa, penseremo che se lo contattiamo rischieremo di essere truffati a nostra volta. La reputazione digitale quindi è una percezione, un giudizio basato su quello che appare sul web associato a una persona, un’azienda, un brand, ecc. e che può pregiudicare l’esito della relazione (un incontro, un contatto di lavoro, un acquisto), se quello che si trova è negativo, oppure insufficiente. Anche non avere una reputazione online ben definita è un cattivo biglietto da visita, significa che non abbiamo alcuna contezza né controllo del canale digitale. Un atteggiamento anacronistico e soprattutto un limite, perché può precluderci delle opportunità relazionali, sia a livello personale che professionale.

 

Come si costruisce la digital reputation di un’azienda?

A.B. Il primo passo è definire la propria identità: quali sono i valori cardine dell’azienda? I suoi risultati? Le sue linee guida? Il primo passo è capire. Un’azienda deve innanzitutto conoscere qual è il punto 0 della sua reputazione online, quindi analizzare ciò che già si dice spontaneamente e in quali canali del web avvengono o meno queste conversazioni. In questo modo può conoscere eventuali problematiche già esistenti, lacune e aspetti positivi su cui invece far leva. A questo punto si disegna una mappa dell’identità desiderata: quali valori e contenuti si vogliono associare al brand? Ciascun tassello dell’identità digitale ha un suo peso nel quadro generale, definita questa misura è possibile dunque pianificare una strategia per far emergere questa identità desiderata.

 

Che rapporto c’è tra identità di brand e la reputazione online?

A.B. L’identità digitale è un’immagine diciamo “cristallizzata” in un determinato istante e si può identificare con la percezione immediata che deriva dai primi risultati associati al brand sul motore di ricerca. La reputazione invece si estende a tutti i canali online e ha un valore diacronico:monitorando costantemente cosa si dice sul brand è possibile registrare un andamento della reputazione nel tempo e quindi, ad esempio, valutare quello che in un determinato periodo influisce positivamente o negativamente sul brand e quali sono poi i successivi impatti, come ad esempio focolai che si riaccendono a distanza di tempo e possono dare luogo al riemergere di eventuali crisi.

 

 

L’errore più pericoloso o quello da evitare più degli altri?

A.B. Non mentire: l’identità online non si costruisce su invenzioni o fatti non effettivamente verificabili. Questo, sia perché non è eticamente ammissibile, sia perché sul web le bugie hanno le gambe corte e una menzogna può fare più danno di una critica.

 

Ci sono strumenti o risorse utili a chi gestisce la digital reputation di un’azienda?

A.B. Come dicevamo monitorare la reputazione è l’aspetto imprescindibile da cui dipende anche la fase di progettazione per questo, chi si occupa di gestire la web reputation dell’azienda, deve sicuramente saper utilizzare gli strumenti base del web monitoring (a partire dal “Google alert”), fino ad arrivare ai tool di analisi più complessi, deve quindi conoscere kpi come il sentiment, la pertinenza e l’importanza delle fonti, l’autorevolezza e il grado di influenza degli utenti.

 

Un’azienda che ha gestito in modo esemplare una crisi?

A.B. Un buon esempio di gestione della crisi è rappresentato da Moncler. Quando l’azienda è stata travolta dal servizio trasmesso da Report che contestava le procedure di spiumaggio delle oche destinate ai noti piumini, la gestione della crisi sui social è stata di buon livello. Moncler, in un momento tutt’altro che facile, è riuscita a non peggiorare la situazione evitando passi falsi sui social, il che non è scontato perché molto spesso avviene il contrario. L’azienda non ha reagito nel momento di picco della crisi, rendendosi probabilmente conto che la maggior parte dei commenti inferociti sul brand da parte di chi stava guardando il servizio di Report arrivava da utenti che non erano il suo target. Tra gli stessi utenti infatti riecheggiava la domanda: quanti da domani smetteranno di acquistare Moncler? Naturalmente questo non significa che la portata della crisi di immagine non fosse notevole, ma l’azienda ha saputo prendere una decisione lucida, scegliendo di non rispondere senza prima aver analizzato la situazione. Ovviamente una risposta non poteva tardare ad arrivare, per cui passato il picco critico Moncler ha comunicato in maniera molto chiara e trasparente attraverso il sito ufficiale e i suoi canali social qual fosse la posizione dell’azienda:

“A seguito della trasmissione di Report di domenica 2 novembre, specifichiamo che tutte le piume utilizzate da Moncler provengono da fornitori altamente qualificati che aderiscono ai principi dell’ente europeo EDFA (European Down and Feather Association)”.

Ma come si fa ad essere sicuri che la strategia abbia funzionato? Alcuni indicatori:

  1. Innanzitutto la curva dei messaggi: i tweet sono stati quasi 12 mila nelle prime 24 ore, per scendere il giorno successivo a 6 mila e calare, una settimana dopo, addirittura del 96%.
  2. Assenza di coda lunga: dopo poco più di un anno, il brand Moncler sui motori di ricerca non è più associato in prima istanza al caso (mentre nei giorni immediatamente successivi apparivano dei collegamenti non solo nei risultati di ricerca ma anche nei “suggest”, ovvero le parole associate al brand sul motore di ricerca). Questo è un aspetto da non sottovalutare: in altri casi i segni della crisi restano in primo piano anche dopo anni.
  3. Last but not least, i risultati dell’azienda nel trimestre immediatamente successivo alla crisi: Moncler ha chiuso il primo trimestre del 2015 con ricavi in crescita del 30%, pari a a 201 milioni milioni di euro, e utile netto di 40 milioni (+69%) nonostante il servizio di Report andato in onda il 2 novembre 2014.

 

Fonte Wind Business Factor

Andrea Barchiesi

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