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#TidePodsChallenge: una sfida che viene dal web e le sue lezioni per i brand

Si chiama #TidePodsChallenge una malsana moda nata negli Stati Uniti tra adolescenti che ingeriscono capsule di detersivo “Tide” per lavatrice e si sfidano a chi ne ingerisce di più postando il video su YouTube.

 

Non è la prima sfida nata sui social e che ha coinvolto migliaia di utenti, in questo caso giovanissimi. Non è la prima volta che si tratta di una moda molto pericolosa per la salute dei ragazzi, ma anche per quella del brand che si trova suo malgrado protagonista con il suo prodotto.

 

In questo articolo di Inside Marketing si ripercorrono tutte le tappe della vicenda, con un focus sull’impatto reputazionale sul brand Tide.
Infatti, nonostante YouTube e Facebook si siano impegnati a rimuovere dalle loro piattaforme i video riferiti alla sfida delle capsule di detersivo che violavano chiaramente gli standard di comunità «incoraggiando attività pericolose», un utente che faccia una ricerca sulla Tide Pod Challenge ha ancora poche probabilità di imbattersi subito in contenuti riferibili all’azienda e che offrano chiarimenti e fact-checking sulla vicenda.

 

Prima che i video venissero bloccati dal canale avevano già raggiunto milioni di visualizzazioni e quindi ingaggiato tantissimi ragazzi che hanno incautamente partecipato al “gioco”.
Anche se i video non sono più disponibili, le preview sono comunque indicizzate: il primo video per la chiave di ricerca “tide” e molti altri in top search su YouTube USA riportano il logo dell’azienda, rappresentando quindi un danno di immagine notevole.

D’altro canto l’azienda ha risposto con un video sui suoi canali social ufficiali (YouTube, Twitter, Facebook) dove invita i ragazzi a non ingerire le capsule. La preview del filmato però non riporta né il logo né il nome del marchio, quindi difficilmente identificabile come video ufficiale una volta messo in circolazione sul web. La conseguenza è che l’engagement raggiunto rispetto ai video delle sfide non è neanche lontanamente paragonabile: le visualizzazioni sono meno di 150mila a fronte di milioni di volte in cui i ragazzi hanno visualizzato i video delle sfide a chi ingerisce più capsule pubblicate dai loro coetanei.Dal punto di vista dei numeri è quindi una battaglia persa in partenza.

Un’altra cosa che dimostra la Tide Pod Challenge è del resto che la reputazione di brand non è mai completamente in mano al diretto interessato. C’è come una ruota della sfortuna: non si può in alcun modo evitare che, del tutto casualmente, alcuni prodotti vengano presi e utilizzati al di fuori del loro ambito. Quello che si può fare è monitorare i segnali deboli. Una moda è come una slavina: non si manifesta mai dal nulla, non parte dalla montagna con tonnellate di neve, parte sempre da qualche piccolo movimento. Per questo nel momento in cui riveliamo un movimento, fosse anche un primo movimento, va subito disabilitato: la slavina a volte può essere fermata non bloccando a valle la valanga, ma fermando a monte la prima palla di neve.

Sulla pagina Facebook di Tide inoltre il focus dei commenti si è spostato sulla effettiva qualità di questo prodotto, innescando quindi un ulteriore riflesso reputazionale negativo.
Contro la slavina inarrestabile c’è però qualcuno che lancia un sos: sul canale Twitter di Tide un ragazzo che ha ingerito una capsula chiede aiuto all’azienda che lo rimanda al suo centro anti-veleni per un controllo.

Le Tide pods challenges si inseriscono in un pericoloso filone di sfida pericolose lanciate sui social dagli adolescenti a caccia di like.
Le aziende che si trovano loro malgrado protagoniste di questi fenomeni, dove i loro prodotti vengono usati per farsi del male, hanno il dovere di promuovere un utilizzo responsabile. I comunicati in questo caso non sono lo strumento giusto. Bisogna parlare attraverso i loro canali e porsi come un punto di riferimento autorevole in merito alla sicurezza e alla salute legata all’uso dei prodotti. È un fenomeno che nasconde una grande fragilità da parte dei ragazzi, che partecipano senza rendersi conto delle pericolose conseguenze e poi si ritrovano soli. L’azienda deve quindi rappresentare, come nel caso citato su Twitter, un punto di riferimento concreto e autorevole, un canale di supporto e, nei casi più gravi, di pronto intervento.

Andrea Barchiesi

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