Il mio articolo su Lettera43
«Ho iniziato a respirare di nuovo. Le catene della mia caviglia si contrassero e l’ombra continuò a fissare. Un pianto silenzioso e alcuni segni di vita cominciarono a formarsi. Non ne avevo idea. L’ho sollevato». Leggere queste righe dovrebbe inquietarvi ma non per la ragione che pensate. Le ha scritte Shelley, una macchina progettata dal Mit. Shelley (chiamata così in onore di Mary Shelley, autrice di Frankestein) è stata presentata nell’ottobre 2017 dal Mit come la prima intelligenza artificiale in grado di scrivere storie dell’orrore. Shelley è stata addestrata attraverso 140 mila racconti per scrivere storie di suo pugno, ma la sua capacità più interessante è quella di interagire con l’essere umano. Shelley è infatti in grado di raccogliere suggerimenti dall’esterno erielaborarli all’interno della sua storia, modificando la versione precedente. «Shelley twitta una storia ogni ora, e risponderà alle top-story collaborative», si legge nel messaggio iniziale del suo profilo Twitter. Le regole per scrivere un horror insieme all’app del Mit sono molto semplici: si risponde alla storia creata da Shelley con uno, due o tre tweet concludendo con l’hashtag #yourturn per farla proseguire. La macchina, si legge sul sito ufficiale, «risponde selettivamente alle storie top di ogni giorno, misurate dalla sommatoria di ‘mi piace’ e retweet».
Ricorda un po’ quel gioco di scrittura collettiva che si faceva da ragazzini, continuando la storia iniziata da un altro a partire dalla sua ultima parola e senza vedere le altre. Alla fine ne usciva un racconto che poteva essere totalmente strampalato o, sorprendentemente, avere un senso. Questa è la bellezza dell’uso di una lingua, uno dei più potenti strumenti creativi che abbiamo a disposizione. Il progetto di scrittura social del Mit è durato per circa tre settimane, in cui Shelley ha scritto insieme agli utenti ben 450 storie.
LE NUOVE FRONTIERE DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
C’è un enorme dibattito intorno al futuro della comunicazione in relazione allo sviluppo dell’intelligenza artificiale e in tutte le riflessioni serpeggia un timore di fondo: l’IA sostituirà i comunicatori? Il livello del dibattito è al momento piuttosto fantascientifico e romanzato, un po’ come nelle storie di Shelley. Si sta spostando troppo in là un sentimento di inquietudine che dovrebbe pervadere già adesso i professionisti del settore. Il muro contro cui schiantarsi è infatti molto più vicino e ha ancora poco a che fare con i robot. I più capaci hanno iniziato a capirlo. Chi oggi comunica senza tenere in considerazione che già viviamo in un mondo misurabile e direzionato dai dati è destinato a essere il cavallo dopo l’avvento delle auto. Ma quali dati? Si parla genericamente di “big data”, indicando il più delle volte un’entità astratta e multiforme, una massa di informazioni eterogenee, più o meno elaborate, più o meno grezze. Da quali di queste informazioni, dunque, farsi guidare? E se il dato è sbagliato? Come sarà la comunicazione basata su quel dato? La prima sfida che si pone ai comunicatori oggi è saper discernere la correttezza del dato, tra una serie di possibilità che il mercato offre.
L’IMPORTANZA DEL DIS-APPRENDIMENTO
Questo implica innanzitutto un grandissimo sforzo di, può sembrare paradossale ma è proprio così, dis-apprendimento. Per capire i dati, che oggi hanno non una, ma molteplici sorgenti di emissione in contemporanea, è necessario abbandonare alcune certezze costruite in anni di comunicazione pre-digitale. Vediamo quali.
I LUOGHI COMUNI DA ABBANDONARE
1. L’AZIENDA PER IL CONSUMATORE È LA FONTE PIÙ AUTOREVOLE
So già che tutti conoscete perfettamente la teoria del consumatore che non è più solo un bersaglio passivo, che è diventato un editore, in grado di influenzare gli altri quanto e magari di più di un autorevole giornalista, eccetera eccetera. Ma cosa significa, nella pratica? Mi trovo spesso davanti a responsabili della comunicazione esterrefatti perché i consumatori non hanno accolto con gioia il messaggio, a loro dire, inequivocabile e inevitabile da parte dell’azienda. Magari era una situazione di crisi, magari l’azienda doveva, necessariamente, esporsi e prendere una certa posizione. Pensiamo per esempio a quando un brand è costretto a comunicare il ritiro di un prodotto dal mercato. Immaginiamo di analizzare la giornata in cui questo comunicato viene emesso. Nella maggior parte dei casi, il responsabile della comunicazione si aspetta di ricevere un report che racconti tutte le riprese del suo comunicato, i canali in cui è stato diramato e anche il valore positivo di questa azione. Così avrà fatto il suo compitino, avrà analizzato i dati, potrà tornare a dormire sonni tranquilli.
Ma, i consumatori che hanno letto un po’ ovunque quella notizia che percezione hanno avuto? Come hanno reagito? Torneranno a comprare il prodotto? Quale impatto effettivo ha lasciato dal LORO punto di vista la fruizione di questi contenuti? Sono queste le vere domande che un comunicatore data driven dovrebbe porsi. È possibile che in una situazione di crisi si presenti all’azienda un report composto dal 90% di contenuti dal sentiment “neutro” semplicemente perché si conteggia il numero di volte che la voce dell’azienda è stata udita e non ciò che quell’ascolto ha provocato? È veramente questa la fotografia corretta della realtà?
2. CHI CRITICA ONLINE UN BRAND NON È CHI COMPRA I PRODOTTI
Non so che negozi frequentiate, ma a me capita sempre più spesso di vedere persone tra gli scaffali che prima di afferrare un prodotto passano interi minuti a guardare il telefono. A leggere le recensioni. Succede anche al supermercato per prodotti da pochi euro.
3. MEGLIO NON RISPONDERE ALLE CRITICHE
Quanti casi di brand abbiamo visto che, in balia a crisi di vario genere ed entità, danno risposte che non prendono minimamente in considerazione la posizione del consumatore, i punti deboli che questi già hanno evidenziato, e continuano imperterriti per la loro strada disseminata di comunicati stampa non dialoganti e calati dall’alto?
C’è un misunderstanding importante alla base: comunicazione data driven non significa comunicare dati. I destinatari della comunicazione corporate continuano a essere le persone, per cui l’intersezione con il valore ha più valore, scusate il gioco di parole, di uno sterile dato. Comunicazione data driven signfica estrarre valore dal dato. E significa anche che i valori sono dati. Se dall’analisi delle opinioni non sappiamo trarre degli insight più profondi che dietro il commento sappiano leggere una percezione, la tensione e l’aspettativa del consumatore verso determinati valori, allora non riusciremo mai a comunicare facendoci guidare dai dati.
LA COMUNICAZIONE NON È MINACCIATA DAI ROBOT
Ci sono, in definitiva, due notizie importanti da dare. La prima è buona: probabilmente un robot non sostituirà mai un comunicatore, per cui, su questo, state tranquilli. La comunicazione sarà una delle ultime cose del pensiero umano che l’intelligenza artificiale, quella vera, riuscirà a emulare. Anche se, non dimentichiamolo, Shelley è riuscita a interagire per un mese intero con delle persone e a produrre, proprio grazie a questa interazione, centinaia di racconti. Quante aziende riescono a fare altrettanto? La seconda notizia, quella brutta, è che con una probabilità ancora più elevata i comunicatori che non faranno lo sforzo di rendere la loro narrazione realmente data driven saranno sostituiti da nuovi comunicatori, in grado di padroneggiare l’interpretazione dei dati quanto o anche meglio della penna. In sintesi molti non dovranno preoccuparsi dell’intelligenza artificiale poiché saranno fuori mercato molto prima.
L’intelligenza artificiale stringe rapporti con l'editoria e le testate, assorbendone il punto di vista e perdendo l’imparzialità.
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