Dopo il terribile omicidio Khashoggi, il principe Mohammed bin Salman ha puntato su una trasmissione di viaggi arruolando una schiera di influencer occidentali. Ma le pose ammiccanti in bikini tra le dune sono state un boomerang.
La mia rubrica su Lettera43
Siamo abituati a operazioni di restyling dell’immagine aziendale a seguito di grandi crisi. Alcune riescono molto bene. Pensiamo alla sterzata di Barilla che è riuscita a diventare “eccellenza LGBT” solo a un anno di distanza dalla bufera scatenata dal suo amministratore delegato, quando dichiarò che non ci sarebbe mai stato spazio per famiglie omosessuali nelle sue pubblicità. Da quel giorno l’azienda ha lavorato molto sul tema dell’inclusione mettendo in atto una serie di buone pratiche che l’hanno portata a riscattarsi da quella infelice pagina e addirittura avere un riconoscimento dalla comunità Lgbt.
Ancora, Ferrero, uno dei primi bersagli delle proteste ambientaliste sull’utilizzo dell’olio di palma nella Nutella, ha lavorato talmente bene sulla ricerca di soluzioni ecologiche per ridurre l’impatto ambientale dei suoi prodotti, che è stata addirittura Greenpeace a scomodarsi per difendere il brand come grande esempio di attenzione alla sostenibilità, quando nel 2015 il ministro francese dell’Ecologia Ségolène Royal lanciò un appello per boicottare la crema spalmabile. Quando operazioni di questa portata riescono è perché un’azienda riesce a integrare nei suoi processi proprio quelle pratiche che prima rappresentavano il suo punto debole, e di conseguenza a trasferirle sul piano valoriale al brand. Insomma, non basta un bel maquillage per “rifarsi” la reputazione.
Queste considerazioni valgono a maggior ragione se stiamo parlando, non di un’azienda, ma di una intera nazione, specie se questa nazione si chiama Arabia Saudita, un Paese scolpito nell’immaginario dei più non certo per le sue bellezze naturali, quanto per la sua storia di oppressione sociale e religiosa. Un’immagine che fino allo scorso anno sembrava in parte destinata a cambiare grazie alle politiche del principe Mohammed bin Salman, dipinto da molti come un progressista per alcune decisioni senza precedenti, quale quella di consentire alle donne di guidare l’automobile. A ottobre 2018 però un’ombra si è posata sul monarca “illuminato”: secondo il governo turco e il Congresso Usa il giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, inviato del Washington Post, sarebbe stato ucciso a Instabul in un attacco premeditato in cui si sospetta il coinvolgimento del principe.
Proprio in quei giorni, bin Salman aveva deciso di lanciare il programma GatewayKSA, una sorta di Grand tour dei giorni nostri rivolto agli studenti di tutto il mondo con la voglia di scoprire, attraverso un viaggio di formazione, la storia e la cultura dell’Arabia Saudita, in modo da far conoscere anche la parte buona e sconosciuta del Paese. Un programma che MbS aveva assicurato non essere propaganda. Eppure, anche «l’esercizio di umano coinvolgimento» richiesto ai partecipanti, ha bisogno di essere sponsorizzato per essere conosciuto in Occidente e il Principe ha scelto di farlo su Instagram, pagando una schiera di top influencer. Una di loro, Aggi Lal, travel blogger da oltre 870 mila follower, sotto gli scatti postati dall’Arabia Saudita, ha però ricevuto durissime critiche. Basta dare una occhiata agli scatti metropolitani/esotici in abiti discinti o alle pose patinate col velo tra cammelli e dune, per capire cosa non funziona in questa campagna.
Non solo non c’è, e non può ovviamente esserci, una rispondenza effettiva tra il messaggio e la terribile realtà in cui vivono soprattutto le donne, ma anche il piano meramente figurativo rimanda a valori totalmente distonici, che cozzano l’un l’altro: il velo, carico di significati culturali, sociali e oggetto di dibattito internazionale, è ridotto a un banale abito, alla stregua dei tailleur e dei bikini che si alternano nei post. Non c’è alcun rispetto né verso la cultura occidentale (gli scatti fuori dal territorio saudita propongono il solito cliché del corpo femminile) né per quella araba (il velo diventa un “accessorio” come il cammello e la guida che accompagna la modella). Infine anche immaginare che una qualunque altra bella donna occidentale possa liberamente posare per scatti simili nel bel mezzo del deserto arabico, senza avere qualche problemino con i locali, risulta veramente arduo.
Eppure, non contenta degli insulti già ricevuti, Aggie persevera nel suo ruolo di ambassador e chiede candidamente ai suoi follower: «Per aiutare le donne saudite ad avere più diritti umani boicottereste il turismo o incoraggereste le donne di tutto il mondo ad andare nel Paese in modo da dare una mano?». Subito accontentata: «Le donne saudite possono combattere per se stesse. Nelle tue foto non vedo nient’altro che un mostrarsi», ha risposto un commentatore. No, rifarsi una reputazione non sempre è possibile. Di certo non lo è se l’intento è autentico quanto i selfie sexy di una modella occidentale nel Paese in cui le donne non hanno neanche una voce.
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