Prima il Covid poi la guerra, i media creano e distruggono esperti star che monopolizzano la conversazione. Dall’informazione bulimica alla disinformazione il passo è breve. Forse è il momento di riportare la serietà e l’etica al centro della questione. La mia rubrica su Prima Comunicazione di maggio
Prima erano i virologi, ora sono gli esperti di geopolitica. Alcuni competenti, altri improvvisati, altri ancora impresentabili. Passano con disinvoltura dai programmi di ballo ai talk di attualità politica dispensando sapere, certezze e una sicura dose di risse mediatiche. Qualcuno forse coltiva ormai ambizioni politiche. Il fondo credo lo abbiamo toccato con la canzone di natale “Si, si vax” del trio Crisanti, Bassetti, Pregliasco. Temo un po’ per il prossimo Sanremo. Il principio forse fu Sgarbi.
Con lui i primi esperimenti di protoesperto trasfigurato un po’ alla volta in maschera grottesca ad uso e consumo mediatico. Di fatto siamo di fronte al compimento di una parabola che ha trasformato il giornalismo, la TV e i media in generale in un oggetto che vira dal popolare al populista (qualcuno con abile paratrasformismo la definisce televisione pluralista). Dall’informativo al disinformativo il passo è breve. Un cambio di paradigma che è prima di tutto sociale e culturale. Riguarda il mondo del giornalismo e della comunicazione, che perde per mano propria il ruolo centrale di guardiano. Investe ognuno di noi, spettatori, spesso inermi e intellettualmente imbolsiti, degli spettacoli da salotto tv.
Oggi però con i social media e il digitale il cortocircuito è completo e avvolgente, credo che abbiamo passato con insensatezza dei limiti incuranti delle conseguenze. I segnali sono allarmanti: secondo un sondaggio Demos per Repubblica una persona su quattro nega che la Russia stia commettendo atrocità e crimini di guerra in Ucraina. Su dati di Eurobarometro, il 37% dei cittadini Ue riferisce di essere esposto a fake news ogni giorno Inoltre, l’85% ha percepito le fake news come un problema nel proprio Paese. Secondo un’indagine Ipsos, infatti, il 73% degli italiani ritiene di essere in grado di distinguere un fatto reale da una bufala. La situazione si ribalta quando si chiede agli italiani se anche gli altri siano capaci di farlo, la percentuale di chi crede che chi lo circonda sia capace di capire la differenza tra informazione e fake news non supera il 35%.
Fa un po’ sorridere, in sintesi per noi sono sempre gli altri a cadere nelle fake news. Dice molto dei meccanismi psicologici alla base del fenomeno. Abbiamo discusso spesso del ruolo dei social network nella moderna comunicazione, quello che emerge è che i media per sopravvivere si sono fatti social. I talk show sono diventati pericolosamente simili ad una pagina Facebook. Degli acchiappa click con un menù di contenuti pensato per generare coinvolgimento più che informazione. La differenza tra i due termini è notevole ed in queste pieghe si celano gran parte dei problemi. Creare coinvolgimento non significa necessariamente informare, anzi sempre più spesso significa creare polemica e spettacolarizzare, dare voce ad opinioni divisive, incuranti degli effetti prodotti all’interno della società.
Il giornalismo facendosi social ha bisogno di combustibile per tenere alte le fiamme, più un ospite è divisivo più genera riprese. Audience in parole povere, l’unica metrica che oggi sembra contare. Così nascono i nuovi mostri, elevati a potenza dai media e consumati dal pubblico. I virologi durante la pandemia hanno dapprima svolto il ruolo informativo per trasfigurarsi poi rapidamente in star. In breve non c’era più spazio televisivo senza un virologo.
Si è scatenata una caccia spietata per ospitare il migliore. Chi arrivava tardi si accontentava anche di un veterinario. In poco tempo i talk più gettonati osavano di più: cominciano ad invitare più virologi contemporaneamente. Nasce così un vociare caotico e incoerente. I pochi seri si sono sottratti progressivamente a questo circo.
Negli ultimi due anni abbiamo spesso sentito il termine infodemia. Era marzo 2020 quando dalle colonne di Prima Comunicazione abbiamo parlato di pandemia social, mettendo in evidenza il cortocircuito dell’informazione causato dal Covid-19. Un fenomeno di auto induzione: dalla TV ai social e dai social usciva rafforzato verso stampa e TV. I virologi più conosciuti in due anni hanno generato mezzo milione di conversazioni online. Parliamo di una media di quasi 700 contenuti al giorno, tra testate online, blog, forum e social.
Abbiamo analizzato il loro ‘potere di influenza’, nei primi sei mesi di pandemia avevamo identificato oltre 120 dichiarazioni pubbliche degli esperti che hanno generato oltre 70 mila contenuti online tra web e social network. Ne abbiamo studiato la coerenza dei messaggi nel tempo (ad esempio mascherina si/no, vaccino si/no) mediante un indice e ne è uscito un quadro disarmante: l’opinione pubblica è stata inondata da opinioni contrastanti tra gli esperti, addirittura molti di loro erano in contrasto con le loro stesse affermazioni precedenti. Questa è stata una importante causa di smarrimento, confusione generale e in ultima istanza di perdita di credibilità della scienza. Questo il delitto più grave. Vedere una scienza litigiosa, in preda all’ego, incoerente, incapace di previsioni stabili ha inferto un colpo importante alla credibilità del sistema.
Chi sono i colpevoli di tutto questo? Queste nuovi mostri mediatici o chi li ha gettati nell’arena lusingandoli e corteggiandoli? Credo che i primi fossero inizialmente inconsapevoli e soprattutto inadatti. Inadatti perché messi a fare comunicazione di massa che è ben diversa dalla comunicazione scientifica. Confonderle è stato un errore grave. La responsabilità è di chi li ha usati in modo sconsiderato e sempre più spesso messi in condizioni studiate per una detonazione incontrollata. Come? Semplice, prendi un virologo o due e li metti nello stesso spazio con ultranovax come la Brigliadori (che dichiara che a 18 mesi dalla vaccinazione saremmo morti) e Red Ronnie. A quel punto basta dire buonasera.
Abbiamo fatto ammenda degli errori? Non direi. Lo stesso sta succedendo in queste settimane con la guerra in Ucraina, che in Italia ha generato oltre 3,3 milioni di contenuti online in un mese. Un tema su cui si è immediatamente acceso uno scontro tra ideologie differenti. Basti pensare che per una parte del mondo siamo davanti a un’invasione, mentre per l’altra a un’‘operazione militare speciale di denazificazione’. Del resto la percezione, come abbiamo più volte evidenziato, è più importante della realtà. Un conflitto non percepito non esiste nell’opinione pubblica.
Ed ecco anche qua emergere i nuovi mostri. Spariscono i virologi, alcuni sembra siano stati allontanati con la forza dai riflettori, altri resistono asserragliati nei camerini, ed emergono gli esperti delle questioni internazionali. Alessandro Orsini, ad esempio: solo nell’ultimo mese è stato citato online oltre 270 mila volte. Il contenuto più condiviso è il pezzo con cui ha esordito tra le firme del Fatto Quotidiano dal titolo “Non armi, ma più sanzioni per ogni bambino ucciso”. Un articolo che ha raccolto più di 27 mila reazioni, che significa mille al giorno da quando è stato pubblicato in termini di like, commenti e condivisioni. Numeri per i quali molti giornali online farebbero carte false. Le parole più associate alla sua figura, dopo Putin (citato nel 10% dei casi), sono proprio le testate che lo ospitano ogni settimana: la Rai, Carta Bianca e l’account Twitter di Piazzapulita. Ma non è l’unico.
Ricordiamo tutti la ‘polemica del giorno’ su Toni Capuozzo, 23 mila citazioni online in un mese. L’ex inviato del Tg5 si lamenta: “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin …”. Capuozzo si è però spinto oltre, mettendo in dubbio le tempistiche e fatti sul ritrovamento dei morti di Bucha. C’è un limite etico morale rispetto alle opinioni o tutto ha dignità? Ricordo, con un certo disagio, che Giletti ha invitato il dentista no vax che aveva provato a farsi vaccinare mettendo un braccio finto in silicone. Un braccio finto. Dargli risonanza mediatica è cronaca, spettacolo o indecenza? Ricordiamo che nei social ogni affermazione può essere decontestualizzata e tagliata in modo da essere asservita ad una tesi del tutto contraria a quella originale.
Questi esperti si ritrovano spesso ad essere dentro Tik tok (social in grande ascesa) paladini di orde di utenti negazionisti, complottisti e quanto di peggio si possa trovare in rete. Alcuni virologi sono citatissimi dai novax a riprova delle loro tesi. La nemesi definitiva. Intanto abbiamo Mauro Corona o Iva Zanicchi a discutere di guerra, relazioni internazionali e dinamiche legate al mercato globale del gas. Il conduttore, spesso giornalista, passa sempre più da essere garante a provocatore. La deriva presa è quella del modello della Zanzara di Cruciani, maestro nel far debordare i suoi interlocutori.
Serve una responsabilizzazione da parte dei media, dei giornalisti e dei social network. Serve una riflessione seria sui temi e sugli esperti, non possiamo continuare ad aizzare l’opinione pubblica dandole in pasto confusione, posizioni estreme e sfascismo solo per fare share. La demagogia accende, fa audience, ma poi la paghiamo tutti esprimendo un tessuto sociale, una classe politica e dirigenziale figlia di questa deriva. Per essere pratici credo che serva una presa di posizione seria, i comunicatori e i giornalisti autorevoli dovrebbero creare un manifesto guida, fare un’opera di sensibilizzazione e dare vita ad un comitato etico super partes che si esprima su questi temi. O prima o poi ci troveremo uno di questi nuovi mostri a capo di un partito e forse addirittura presidente del consiglio.