“Quando è in atto una crisi, la passività non fa che accrescere l’impotenza”. Parole di Henry Kissinger. Aggiungerei però che fare la cosa sbagliata è anche peggio. A tal proposito queste settimane ho riflettuto molto sulla crisi che ha coinvolto Elisabetta Franchi. Ricordiamo che la mente umana è molto più incline a ricordare gli elementi negativi rispetto ai positivi. Tutto ciò che ha fatto è ora percettivamente sovrascritto. La dura legge della reputazione. Le sue parole sulle assunzioni in azienda, sul lavorare 24 ore al giorno, sui giri di boa che una donna deve compiere sono culturalmente esplosive.
Siamo davanti a un interessante caso di studio. I numeri: in un mese il ‘caso Franchi’ ha generato oltre 20 mila contenuti. Per Giorgio Armani nello stesso periodo si contano meno di 500 risultati. Parliamo di Armani, non dell’ultimo arrivato. Già questo darebbe l’idea del fenomeno mediatico esploso. Franchi ha toccato un tema sensibile. Viviamo al tempo della rabbia sotto la superficie, sempre ammantata di buone cause, e i social network sono il detonatore perfetto. Come una pentola in ebollizione continuamente nascono e si consumano crisi, piccole e grandi. Movimenti di protesta nascono con facilità, l’indignazione è repentina e genera in poco tempo un alto tasso di conversazione. Ma guardare solo la curva dei volumi è un errore.
I tweet passano, ma ricordiamo che on line ogni contenuto è per sempre ovvero resta in modo indefinito in rete. Sarà raggiungibile anni dopo, creando terreno fertile per crisi future. Creano uno stato di crisi sospesa. Pensate a Schettino e alla Concordia. Con una veloce ricerca potete constatare le centinaia di migliaia di foto e articoli presenti. Schettino è per sempre. E questo è un fattore di nuova enorme complessità per i comunicatori. Il comunicatore oggi deve saper governare il passato. Fisicamente non concettualmente.
Oggi Elisabetta Franchi è al centro della tempesta, è lei la punta in cui converge la crisi. Digressione da ingegnere, quello che sta accadendo mi ricorda molto un fenomeno fisico: è il potere disperdente delle punte, che poi è il motivo per cui durante un temporale non è mai saggio ripararsi sotto un albero. In poche parole le cariche si accumulano nelle punte, da cui deriva il parafulmine. La carica elettrica (la crisi) in questo momento è tutta concentrata su sulla fondatrice di Betty Blue. Questo però, ed è nuovo, attiva milioni di occhi attenti ad ogni sua mossa, presente e passata. Un’idra sociale (molto) poco benevola che aggiunge elementi alla crisi.
La rete è un continuum di esteso presente attualizzato, tutto esiste nello stesso istante. Ed ecco che tornano le sleeping bomb: eventi, dichiarazioni, articoli di stampa che al tempo “t” non hanno generato alcuna reazione, ma restano silenti e ad alto potenziale. Diventano delle vere e proprie bombe in attesa solo di un innesco pronte ad esplodere al mutare delle condizioni. Ecco infatti che in queste settimane sono tornate a galla tutte le vicende passate che riguardano la stilista e il tema dei lavoratori, ad accrescere il livello di crisi. Il passato ritorna, si aggiungono nuovi elementi, altri lavoratori denunciano le condizioni di lavoro, meme satirici alimentano la discussione. L’idra. Si innesca la miccia e la massa critica cresce.
L’aumento di massa critica può portare allo stadio II, la serializzazione della crisi (il fulmine): la crisi che prima era confinata alla punta, si allarga. Oltre un determinato livello di intensità, la carica cerca nuovi sfoghi, nuove punte. Il rischio è quello che la crisi raggiunga prima l’intero mercato e poi la società. Ed ecco l’effetto domino tipico delle crisi moderne. Non va sottovalutato.
L’errore più grande sarebbe quello di sentirsi immuni. “Tanto è un problema che riguarda solo il nostro competitor”. Non è così: se il concetto sedimenta nella società, il tema diventa seriale e riguarda tutti. Prendiamo il caso MeToo: prima riguardava solo Weinstein, poi Kevin Spacey, poi l’intero settore del cinema per poi arrivare allo stadio III (estensione a tutti i campi) fino al presidente degli Stati Uniti.
Che fare? Farsi guidare dai dati, studiare ciò che sta avvenendo, conoscere il proprio passato digitale e governarlo. Fronteggiare la disinformazione. Ciò che può essere misurato può essere gestito, il resto è puro caso. Accettare un approccio basato sui dati significa mettersi in discussione. È un approccio che richiede più serietà di quanto si pensi e non ammette improvvisazione. L’alternativa è farsi guidare da un’altra suggestione di Kissinger: “There cannot be a crisis next week. My schedule is already full”. Insomma pensare che possa accadere solo agli altri. E questi sono spesso i primi travolti dal Domino.
L’articolo su Prima Comunicazione:
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