Interviste

L’identità digitale va coltivata con cura

Andrea Barchiesi ha studiato da ingegnere elettronico ma da ormai più di vent’anni si è specializzato in un’altra branca dell’ingegneria: quella reputazionale, appunto. Diventandone un pioniere prima e uno dei massimi esperti che abbiamo in Italia, oggi. Oltre ad essere founder e Ceo di Reputation Manager, istituto tra i più importanti del settore, dal 2013, attraverso l’Osservatorio Top Manager Reputation, monitora e indaga come e perché la “reputation” sia diventata un asset sempre più centrale nella vita delle aziende e dei management.

Per lui, il ‘caso Ilva‘ “è l’effetto di un cambiamento sistemico”. “L’era digitale – dice – ha modificato radicalmente la comunicazione, per come sono strutturati la Rete e gli algoritmi dei social network essi tendono a dare alle informazioni negative maggior rilevanza, persistenza e viralità. Ecco perché sempre più manager, aziende e istituzioni stanno assumendo consapevolezza dei rischi e delle opportunità della presenza online. Il web non dimentica nulla, tutto esiste allo stesso tempo e può tornare a galla. Accade che nello stesso istante siano presenti informazioni anche discordanti tra loro e di periodi temporalmente lontani. Tutto questo, insieme, orienta la percezione del lettore”.

Quindi è legittimo provare a migliorare la propria immagine pubblica?

“Avvalersi del diritto all’oblio e cercare di orientare la propria immagine pubblica è sicuramente legittimo. Il discrimine però è il metodo: occorre seguire etica e trasparenza“.

L’identità digitale, del resto, implica sfide normative complesse rispetto alle quali i policy-makers – e forse, ancora più di loro, le grandi platform – faticano ad adeguarsi, dal diritto all’oblio, appunto, alla tutela dei dati.

“L’identità digitale è un elemento relativamente nuovo, dato dall’insieme dei contenuti che si trovano in Rete. Esiste in ogni momento ed è diventata primaria per ogni relazione, ma il diritto e i policy maker lavorano su una scala temporale lunga, per cui si sono trovati in difficoltà a recepirne la portata e a normarla. Idem per le piattaforme, che sono il terreno in cui si sviluppa questa identità digitale.

Ma c’è in gioco molto di più: gli ultimi eventi – la pandemia e la guerra, per citarne due – ci hanno messo davanti a una realtà diversa, con l’esplosione di fake news e l’inquinamento dell’informazione portato avanti, ad esempio, da bot e sistemi automatizzati, ci si è resi conto che la questione riguarda tutti. Ed è sistemica. Ecco perché mi auguro che il tema venga affrontato ad ogni livello: istituzionale, normativo, economico. Serve la sinergia di tutti gli attori coinvolti, dagli utenti alle istituzioni, passando ovviamente per le piattaforme”.

Oggi la “reputation” quanto incide sul mercato e sui consumi?

“La reputazione è percezione. Per cui riguarda tutto quello che è nella sfera della persona, dalla scelta della località delle vacanze al partito politico che guiderà il Paese nei prossimi anni. Ogni decisione, nella società in Rete, è basata sulla percezione e non sulla realtà. In questo senso oggi la reputazione è un asset centrale e abilitante. Penso al tema dell’accesso al credito per le aziende, alle opportunità di carriera lanciate o bloccate, ai prodotti di successo, o i conti bancari congelati a causa di una cattiva reputazione online. Essa arriva ad essere anche un driver che muove gli indici in Borsa. Anche tra Russia e Ucraina non c’è in atto solo una guerra tradizionale, ma comunicativa: vediamo ad esempio l’ondata di disinformazione che ha colpito l’Europa. Oggi non si può più pensare di affidare al caso la propria identità digitale, che deve essere invece presidiata e tutelata con capacità”.

Reputation Manager, con il suo osservatorio, si occupa della reputazione online di personaggi di vertice dell’economia da anni ormai. Come è nata l’idea?

“La reputazione è diventato un asset primario, non solo per i manager ma anche per i brand. L’osservatorio è nato nel 2013 dall’idea di dare una misurazione numerica a questo asset. All’epoca il tema della reputazione non era ancora stato codificato in Italia, basti pensare che la professione del Reputation Manager è stata normata soltanto anni dopo. Eppure, era un driver invisibile che da sempre orientava le decisioni di aziende, banche e top manager.

Abbiamo così pensato di studiare il fenomeno con un approccio matematico e metterli sotto la nostra lente, per capire come si muovevano, di cosa parlavano e come venivano percepiti dall’esterno. Abbiamo raccolto la sfida di trasformare un concetto importante ma astratto in una componente numerica. Ne è nato il nostro osservatorio Top Manager Reputation e ne è nata una metodologia che analizza ogni contenuto web sulla base di più di 100 parametri riferiti al dominio e al contenuto. In dieci anni siamo passati dal monitoraggio di 20 manager agli oltre 150 attualmente presenti”.

Insomma, l’osservatorio è diventato un termometro della classe dirigente?

“Sì, e aggiungo un asset strategico di visione e comprensione della classe manageriale del Paese.  Da lì, il passo immediatamente successivo è stato quello di brevettare una metodologia in grado di tutelare e costruire la reputazione online, l’Ingegneria Reputazionale®. Costruire, non plasmare: ogni azione che viene fatta per orientare la percezione ha come bussola la verità. Non ci si può fingere qualcosa di diverso da ciò che si è, questo è fondamentale”.

Anche Eliminalia, l’azienda oggi finita in mezzo all’inchiesta di Irpi #Storykiller, è stata una delle prime a occuparsi di web Reputation…

“Come in ogni mercato, a maggior ragione in quelli nuovi, ci sono player etici e player meno etici. L’importante è saper fare i dovuti distinguo. Mi rendo conto non sia sempre facile, trattandosi di una materia complessa in continua evoluzione e ai più realmente sconosciuta. Va detto che la gestione della reputazione è qualcosa di ben più articolato della sola rimozione dei link, che pure è un’attività importante e lecita a tutela dell’identità quando ci sono determinate condizioni”.

Come si fa a distinguere chi lavora con serietà e con strumenti legali da chi opera borderline o con mezzi poco ortodossi, le cosiddette “lavanderie online”?

“Il mercato è in piena evoluzione, negli anni molte realtà si sono improvvisate rincorrendo il tema. Gli asset che ora fanno davvero la differenza sul mercato sono il metodo, la tecnologia e l’etica. Per lavorare in questo campo servono strumenti ad alta tecnologia ed esperti, diffiderei quindi da chi promette castelli in due giorni e da chi offre formule della serie ‘soddisfatti o rimborsati’, che caratterizzano i player non etici. Ma ancor di più valuterei con attenzione l’impegno etico dell’azienda. Parlo di quelle regole etiche che l’azienda si dà per valutare, ad esempio, il proprio ingaggio su un determinato cliente. Ci siamo resi subito conto che la materia poteva attrarre figure che non ritenevamo fosse giusto supportare, di conseguenza in assenza di regole ci siamo auto-regolamentati con un Codice Etico. Servono trasparenza finanziaria, esecutiva, commerciale e operativa. È arrivato il momento di portare queste regole a un livello più alto“. 

Cosa può fare il legislatore oggi per provare a regolare, in un macrocosmo così sfaccettato e controverso come quello della Rete, e conciliare la tutela dell’identità digitale con il diritto di cronaca?

“Non esiste una soluzione unilaterale al problema. Serve la sinergia di tutte le competenze, dalla parte politico a quella giuridica, passando per la componente più tecnica. Mi auguro che si possa creare un tavolo a più livelli che coinvolga ogni attore in gioco: istituzioni, aziende, media e ovviamente le piattaforme, che devono garantire un impegno costante nel tempo. Noi intanto continueremo a fare la nostra parte”.

La mia intervista su Economy:

Paolo Marinoni

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