Gli influencer sono ancora un’area grigia della rete, è urgente affrontare la questione e definire degli standard etici e di sicurezza.
Il problema dell’acrobata. Ogni acrobata sa bene che camminare sul filo incanta il pubblico la prima volta. Poi sempre meno fino agli sbadigli. Per tenere all’insù i nasi degli spettatori, l’equilibrista inizia a saltellare su quel filo, poi a usare una gamba sola, poi a testa in giù, poi su una ruota. Ma tutto diventa scontato alla lunga e alcuni toglieranno la rete di sicurezza saltando senza protezione.
Dalla recente cronaca, il caso di Matteo Di Pietro, youtuber fondatore dei The Borderline (acrobata già nel nome), che alla guida del SUV Lamborghini ha travolto la piccola auto che trasportava Manuel Proietti di 5 anni a Casal Palocco, uccidendolo. Non è un semplice incidente, i The Borderline stavano facendo una challenge, linguaggio Millennial per indicare una sfida (spesso stupida, nota da Gen X): guidare ininterrottamente per 40 ore senza scendere dal mezzo, per poi pubblicare il video sul loro canale. La condotta è criminale e la condanna della società civile è unanime.
Per avere l’attenzione si sposta il limite. Il destino dell’acrobata è questo: o cadere a terra o nell’indifferenza. Gli influencer sono i nuovi acrobati di un’era in cui tutto è circo, spettacolo. Ogni tanto osano troppo e accade qualcosa che per un attimo risveglia le coscienze, genera un’onda di sdegno e rabbia, ma che non porta a riflettere davvero sulle cause.
Chi è responsabile?
Francamente mi sembra una posizione riduttiva e di auto-assolvimento. Sono davvero gli unici colpevoli? Sicuramente dal punto di vista materiale, ma vi sono almeno quattro livelli di responsabilità crescente.
1) Il primo siamo Noi. Siamo noi utenti ad alimentare questo sistema malato: innanzitutto siamo spettatori assuefatti ad una mancanza di regole. L’assassino della giovane diciassettenne di Primavalle usava i suoi profili per spacciare droga, postava le foto e mostrava i soldi guadagnati, in secondo luogo siamo anche i loro amplificatori, i video più mostrati e riproposti sono quelli più visti e condivisi. Un bolide che corre a 300 all’ora genera più interesse di un saggio al conservatorio. Dramma, morbosità, pericolo, gossip, pornografia sono da sempre le chiavi dell’hype, su qualsiasi media.
2) I brand. La pubblicità si mette sui contenuti più visti e condivisi. Dopo l’omicidio di Manuel, le adv degli sponsor continuano a girare sui video del suo assassino, che continua così a guadagnare. I brand per quanto potranno ancora dirsi inconsapevoli di fare pubblicità su questi contenuti pericolosi e non etici? Altro che ESG.
3) Le istituzioni. Di fronte alla tragedia, ogni volta ci si indigna. Le istituzioni tuonano di fronte a stragi che sono però annunciate. A inizio estate è girata una nuova sfida su TikTok: il salto dalla barca in corsa, che ha fatto subito quattro morti. Cosa stiamo facendo di concreto per bloccare questi contenuti? Le istituzioni arrancano, fermandosi a cogliere poco più della superficie del fenomeno. Come azioni di contrasto propongono dibattiti. E, mentre discutiamo, nulla cambia.
4) Le piattaforme. Last but not least – il grande palcoscenico di questo materiale, i social, proprietari di tutti i contenuti, hanno in mano la chiave per fermarli, ma non lo fanno. I social non sono l’Authority, non sono onlus, guadagnano da questi contenuti. Basta fare un giro su TikTok per imbattersi in sfide di pugilato più o meno autorizzate, corse di auto a 300 km/h, sfide a chi mangia più cibo spazzatura nel minor tempo possibile. Qualche settimana fa, un ragazzo cinese è morto subito dopo una diretta in cui per una sfida ha bevuto d’un fiato un’intera bottiglia di superalcolico. Più recentemente, un bambino ha fatto la stessa fine sempre per una sfida ingerendo una patatina piccantissima.
Quali soluzioni?
Per risolvere i problemi bisogna prima di tutto capire che i social sono molto diversi dai media tradizionali: primo sui social non esiste una prima pagina uguale per tutti, a seconda di chi guarda il flusso questo cambia in base ad un algoritmo. È quindi difficile avere una visione di ciò che accade. Un genitore non vede le stesse cose di suo figlio. Seconda differenza, i media classici rispondono a una linea editoriale e a codici deontologici, i social no, il massimo che fanno è autoregolarsi e darsi un’etica di facciata.
Quindi come possiamo spezzare questa catena? L’unica strada per vedere dei risultati è la collaborazione reale tra piattaforme, autorità e brand. E creare un mediatore che renda pubblico ciò che è pericoloso: un portale che metta in chiaro i comportamenti eccessivi e mandi subito le segnalazioni alla Polizia Postale. Una Ducati in un post va a 300 in strada? Segnalazione immediata in un portale pubblico con tag a Ducati e lista dei contenuti alla polizia. Il tempo delle discussioni è finito, non possiamo più restare a guardare.
(Articolo pubblicato su Prima Comunicazione)