Siamo nel pieno dell’era delle Social War. La guerra moderna non si combatte più solo nei campi di battaglia ma anche sul piano della comunicazione. Tecnicamente si parla di guerra ibrida.
L’ex comandante supremo alleato della Nato, generale Breedlove, l’ha definita una nuova forma di conflitto in cui la narrazione e gli annessi strumenti di comunicazione sono ancor più decisivi dei mezzi militari. E oggi queste battaglie avvengono nei social network. Prima il conflitto russo-ucraino, ora quello israelopalestinese dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre sono raccontati non solo dai media ufficiali, ma sempre più da narrazioni parallele, sotterranee, frammentate rispetto all’informazione ufficiale, ma in grado di generare un’eco e un seguito senza precedenti.
Su TikTok sotto la ricerca degli hashtag relativi ai conflitti citati vengono restituiti migliaia di video che cubano miliardi di visualizzazioni. Quelli sulla situazione a Gaza registrano attualmente 98 miliardi di views per l’esattezza. Sono cifre enormi che rendono i media tradizionali quasi obsoleti.
Su Wikipedia in pochi giorni la pagina dedicata al conflitto tocca 3,8 milioni di visualizzazioni e soprattutto 7.332 modifiche. Ogni modifica è una alterazione potenziale dei fatti. Cosa c’è in questo imponente flusso di informazione disintermediata? Un insieme di dati caotico e senza soluzione di continuità, dove si fondono ideologie, religioni, storia, odio e dolore. I social con i loro algoritmi tendono a prendere questo magma e polarizzarlo, ovvero presentare a ognuno di noi quello su cui interagiamo di più e quindi generare due poli, due tifoserie sempre più inconciliabili. È il fenomeno delle camere dell’eco. E chiunque passa può gettare in questo magma ciò che vuole.
Ecco pericolosi post antisemiti, di inno al terrorismo, di revisione storica. Fatti inventati, finte interviste. Tutto entra e viene poi distribuito dall’algoritmo agli utenti che diventano i portatori inconsapevoli. È come immettere un virus che si moltiplica poi in modo inesorabile. Ecco ad esempio su TikTok una serie di filmati, montati con la stessa sequenzialità di immagini, la stessa musica di sottofondo, che fanno un diretto richiamo all’era dello sterminio degli ebrei. L’antisemitismo scorre. Poi ci sono le ricostruzioni storiche che durano una manciata di secondi, prodotti dai nuovi divulgatori, quelli della generazione Z. Per questi ultimi le analisi geopolitiche dei talk show sono come i treni a vapore. Lenti e adatti ai musei.
Perché è così importante vincere la guerra della percezione? Perché nelle democrazie occidentali il supporto a una causa è fondamentale. Se l’opinione pubblica diventa contraria la politica deve farsi salmone e andare controcorrente. E si perdono le elezioni. Perché se l’opinione pubblica è contro nascono manifestazioni, disordini, difficoltà crescente a fornire supporto. Addirittura è sufficiente che la popolazione perda interesse perché una causa venga semplicemente dimenticata (e non più finanziata).
Lo sa molto bene Zelensky che dall’inizio del conflitto Russo Ucraino è in tour continuo in ogni evento significativo (aveva tentato persino a Sanremo). Fino ad ora ha combattuto in modo eccellente la sua guerra di percezione. Ora il conflitto israelo-palestinese lo mette in ombra e sa che se non finirà in fretta scemerà l’interesse per la sua causa e verrà meno l’importante impegno delle nazioni che lo supportano.
Le Social War diventano un prodotto mediatico. Va notato che persino Putin deve fare attenzione alla percezione interna, certo a modo suo, chiudendo la stampa, emanando leggi sulla disinformazione (che per ironia imprigiona chi dice la verità) e incarcerando qua e là. E la brutta notizia è che questa guerra l’Occidente la sta perdendo. Questo per due ragioni: la prima è che la supremazia militare ed economica ci ha dato una falsa sicurezza su cui ci siamo seduti. A differenza delle autocrazie e delle dittature. La seconda è che la democrazia non vive senza il consenso e questo la rende strutturalmente vulnerabile a questo tipo di attacchi. I suoi pozzi informativi sono facilmente inquinabili proprio attraverso le sue invenzioni mediatiche, i social network, che hanno levato lo scettro informativo ai media tradizionali. Non a caso la Cina li ha bloccati sul nascere nei suoi territori.
Cosa fare? Responsabilizzare i social, devono essere parificati agli editori e quindi fermare propaganda e disinformazione. E se la guerra diventa un prodotto mediatico, per tutti i comunicatori è il momento di immergersi davvero in questi mondi e operare per tutelare la democrazia. Il battaglione San Marco del digitale.
(Articolo pubblicato su Prima Comunicazione)
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