L’analisi del caso Armani dimostra che la crisi è qualcosa di probabilistico: non dipende dalla questione in sé, ma dipende molto dalla percezione della questione stessa.
Sul caso del caporalato in cui è coinvolta la Maison, la crisi si è accesa, ma è rimasta tra gli addetti al settore, con un basso picco e si è quasi subito spenta. Non è una cosa percepita come vicina ai cuori della società civile e poi la moda non è nuova a queste vicende. Una crisi deve avere un fattore ortogonale, di novità. Qui non c’è la novità, non è qualcosa di stupefacente.
Seconda cosa: è percepita come lontana. Terza caratteristica fondamentale della crisi è che deve esserci spazio mediatico e in questo momento lo spazio mediatico è abbastanza caldo, ma per varie altre vicende politiche. Questo è come se levasse ossigeno alla fiamma della crisi.
Molto diversa dall’impatto del caso Ferragni. Le due crisi hanno però in comune il potenziale effetto contagio: come è successo nel caso di Chiara Ferragni, che ha avuto delle ripercussioni su tutto il terzo settore e la solidarietà, portando fino a una legge, questa cosa può essere l’innesco di un filone estremamente problematico per tutto il settore della moda. Chi pensa che questa cosa riguardi solo Armani, ha sbagliato del tutto, perché non funziona così. Da questo istante in poi dovrebbero essere tutti più attenti, perché è molto più probabile oggi che si riaccenda quella scintilla.
I dati della nostra analisi della crisi a 11 dimensioni e il mio commento sul caso Armani nel pezzo di Giusy Dente per Fanpage.