il nome è potere andrea barchiesi

Il nome è potere

Trump rinomina il Golfo del Messico in Golfo d’America, non è un’azione eccentrica, dare un nome è un atto di potere, di ridefinizione psicologica. E comunicativa.

Napoleone fece costruire a Parigi, di fronte alla Scuola militare, il ponte che congiunge Trocadero alla Torre Eiffel, e lo chiamò “Pont d’Iéna”, per celebrare l’omonima battaglia del 1806 in cui inflisse una cocente sconfitta alla Prussia. Così cocente che otto anni dopo, quando il generale prussiano Blücher arrivò a Parigi per occuparla nella primavera del 1814, era deciso a far saltare in aria il ponte. La situazione stava precipitando e il destino del ponte sembrava segnato fino a che non intervenne Talleyrand, un nobile francese molto astuto, che suggerì di cambiare il nome ribattezzandolo “Pont de l’Ecole Militaire”.  Così d’un tratto non rappresentava più un simbolo e fu lasciato integro.

Questa tecnica oggi è definita reframing, in pratica la riformulazione della questione che è oggetto del problema come tecnica di soluzione dello stesso. Dall’esempio è evidente che nei nomi c’è un potere nascosto, quello di proiettare un’idea nella nostra mente. Instradare il nostro pensiero in un percorso implicito e inconsapevole che determina il nostro modo di vedere la realtà.

Sotto questa luce va letta l’azione di Donald Trump, che ha firmato un ordine esecutivo per rinominare il Golfo del Messico in “Golfo d’America” nelle comunicazioni ufficiali degli Stati Uniti. È stata considerata erroneamente dai più come un’azione eccentrica ed impulsiva, una provocazione. In realtà questa tecnica di comunicazione è un indicatore molto chiaro di un cambio di paradigma nella psicologia interna degli Stati Uniti e del rapporto sia verso i suoi avversari sia verso gli alleati storici.

Forti, infatti, anche le esternazioni sul Canada, a cui sottrae verbalmente la sovranità definendolo il 51° stato degli USA. Sa comunque toccare corde che sono già presenti e che, sicuramente nel suo pubblico interno, hanno un certo effetto di cui è pienamente consapevole.

Tornando alla questione messicana, questo è solo l’ultimo atto del Presidente USA che dal 2016, dai tempi della sua prima campagna elettorale, ha portato avanti una politica di contrasto all’immigrazione illegale dal Messico agli Stati Uniti, a cominciare dalla proposta di costruire un muro al confine fino all’imposizione di dazi. Nomi e confini. Dopo l’ordine esecutivo, Google Maps ha annunciato che avrebbe aggiornato la denominazione solo per gli utenti statunitensi. È facile capire quanto questa decisione possa influenzare l’opinione pubblica contribuendo a radicalizzare la polarizzazione tra i due Paesi.

La replica al vetriolo della Presidente Sheinbaum non si è fatta attendere. In una conferenza stampa, mostrando una mappa antica, ha ironicamente proposto: “Che ne dite di America messicana? Carino, no?”. Ha compreso bene cosa è in gioco ed eccoci in una guerra di definizione. Elon Musk ha lanciato il movimento MEGA (“Make Europe Great Again”), riadattando all’Europa lo slogan trumpiano. Non si sa neanche cosa sia nel concreto, ma il panico serpeggia. Come accade ormai ogni volta che pubblica un tweet.

Nell’era digitale certe dinamiche del potere che prima erano silenziosamente in atto, oggi vengono sfrontatamente alla luce. E questa perdita delle apparenze non è una buona notizia.

Non è la prima volta che Google si trova in una posizione controversa. Dalla sua nascita, nel 2005, Google Maps è diventato uno strumento essenziale per il quotidiano. La rappresentazione delle frontiere, la denominazione di luoghi e la gestione delle informazioni sensibili, in un mondo sempre più diviso e frammentato, sono questioni scottanti. Non è un caso che gli episodi più controversi abbiano riguardato i più grandi teatri di guerra. Un esempio emblematico è la Crimea. Dopo l’annessione russa nel 2014, Google Maps ha adottato approcci diversi a seconda della regione: agli utenti russi la Crimea appare come parte della Russia, mentre agli utenti ucraini come parte dell’Ucraina. Nel resto del mondo, la penisola è indicata con una linea tratteggiata, segnalando la disputa territoriale. Del resto, Putin poche ore prima di invadere l’Ucraina l’aveva annunciata in tv come “un’operazione militare speciale” per rispondere a una richiesta d’aiuto del Donbass, con il chiaro obiettivo di influenzare l’opinione pubblica. C’è una enorme differenza tra invasione e operazione, la stessa che corre tra aggressore e difensore.

Nel 2016, oltre 300.000 persone firmarono una petizione per inserire la Palestina sulle mappe, accusando Google di ignorarne l’esistenza. L’azienda rispose che le aree erano etichettate come “Territori Palestinesi” e che avrebbe migliorato la precisione delle mappe. Queste scelte suscitano più di un dubbio sull’imparzialità.

L’Europa in tutto questo è attonita e sta a guardare, scrivendo norme. Chissà che da questi segnali non nasca una serie di effetti che la faccia risvegliare.

Articolo pubblicato questo mese su Prima Comunicazione.